▼ Il tweet del giorno

venerdì 23 novembre 2012

#Gaza e #Israele: la narrazione mediatica nel web 2.0 e la #twitterwar



Negli ultimi giorni,  successivamente all’inizio dell’offensiva israeliana Pillar of Cloud, abbiamo assistito ad un dibattito sul ruolo dei social media in quella che è stata rinominata la “Twitter War”.

Per compiere un’analisi più accurata, sarebbe utile procedere per tappe storiche, individuando i cambiamenti avvenuti nel mondo dell’informazione rispetto al conflitto in questione.
Fin dalla nascita di Israele, i palestinesi ebbero pochissima rilevanza nei media, i quali focalizzarono i loro articoli sul conflitto tra i maggiori paesi arabi e l’appena nata democrazia israeliana. L’immagine di un conflitto tra uno stato ebraico e gli stati arabi, infatti, si sposava perfettamente con le logiche narrative dei media internazionali e al contempo condannava i palestinesi ad essere un popolo senza nome e senza identità.

Fu persistente il tentativo, da parte israeliana, di vietare l'utilizzo del termine “Stato palestinese”. A ciò, furono funzionali le dichiarazioni di Golda Meir al Sunday Times nel 1969: “There were no such thing as Palestinians.[…] They didn't exist.”
Arrivò perciò il momento di creare la condizione necessaria per cui fosse possibile ottenere uno spazio all’interno delle narrazioni mediatiche internazionali: la costruzione una forte identità palestinese.

Fatah riuscì a proporre un’immagine palestinese da offrire all'opinione pubblica e tramite l’Intifada del 1987 inizio quel processo da molti rinominato “palestinizzazione” del conflitto. Ciononostante, i media main stream (telegiornali e tv) continuarono ad allinearsi alle fonti politiche (israeliane e statunitensi), lasciando ai margini la narrazione palestinese. Ciò si evidenziò maggiormente durante i cosiddetti accordi di Camp David, dove gli israeliani montarono una macchina mediatica che fu messa in moto all’indomani del rifiuto di Arafat che portò al fallimento delle trattative. Tutti i media mainstream accettarono la versione ufficiale israeliana e nessuno, salvo alcuni articoli d’opinione isolati che però non minarono l’interpretazione dominante, si propose di indagare sul motivo del rifiuto delle offerte israeliane da parte del leader di Fatah.

Sarà soltanto con l’avvento di Internet che i palestinesi potranno riscattarsi.
Alla vigilia dell’Operazione Piombo Fuso, le uniche informazioni (riguardanti sia degli spaccati di vita quotidiana sia delle analisi politiche) esterne ai media mainstream erano reperibili per la maggior parte nei blog degli attivisti (primo fra tutti, in Italia, quello di Vittorio Arrigoni) e delle ONG (Amnesty in primis). L’uso dei social network non era ancora diffuso capillarmente a livello mondiale e Twitter, Facebook e Tumblr non erano ancora concepiti come strumento di diffusione delle notizie.
Sembra evidente che l’operazione Pillar of Cloud si differenzi fortemente sotto questo aspetto dai fatti precedenti.

Twitter , grazie alla sua capacità di gestire facilmente l’enorme flusso di informazioni, è diventato il mezzo di diffusione delle notizie più accreditato.
Oramai tutti i principali media mainstream hanno un account twitter e all’interno dei loro siti gestiscono pagine riportanti esclusivamente il live blogging di Twitter. I giornalisti delle maggiori testate usano il loro personale account per riportare breaking news, articoli presenti nelle pagine online del proprio giornale o anche all’interno dei loro blog personali. Molti attivisti e giornalisti freelance, primo fra tutti @harryfear, hanno messo a disposizione della rete aggiornamenti minuto per minuto riguardo la situazione a Gaza.
Ciò che più è risultato sorprendente è stato l’uso del social network per dichiarare l’inizio delle operazioni e offrire aggiornamenti costanti sia di propaganda sia riguardo le operazioni stesse.

Nel momento in cui scrivo, l’account @IDFSpokesperson ha avuto un incremento di circa 130.000 followers (da 71.000 circa dell’inizio delle operazioni a 200.000 circa), mentre @AlqassamBrigade, account del braccio militare di Hamas, ha decuplicato i suoi followers nel giro di 8 giorni.
Come scrive nel suo blog Augusto Valeriani, docente di Mass Media e Conflitti internazionali dell’Università di Forlì, Israele ha posto tra le sue priorità la pianificazione di “una vera e propria campagna twitter e social in genere”: i suoi video di propaganda si adattano perfettamente ai tempi comunicativi del social media marketing. Valeriani ritiene che Israele domini la “dimensione social del conflitto” eppure, a mio parere, la supremazia israeliana diventa giorno per giorno sempre meno netta.

Le foto dei bambini uccisi e dei danni causati dai droni sulla striscia di Gaza vengono retwittati di continuo tramite gli hashtag  #warcrimes e #humanrights.
L’hashtag #Gazaunderattack ha avuto un numero enormemente maggiore di retweet rispetto a quelli creati da Israele, #PillarofDefense e #IsraelonFire.

Il movimento di hacktivisti Anonymous, tramite il comunicato #OPIsrael, ha dichiarato di sostenere la causa palestinese, riuscendo ad attaccare migliaia di siti israeliani e filo-israeliani (tra cui quello dell’IDF e dell’AIPAC) e suggerendo agli abitanti della striscia come ristabilire una connessione via Internet nel caso in cui questa fosse stata interrotta dal governo israeliano.
Come molti hanno fatto notare,  i palestinesi e i sostenitori della loro causa hanno compreso che i successi comunicativi della primavera araba derivavano dal fatto che, nel mondo del web 2.0, fosse necessario adattarsi ad un tipo di comunicazione orizzontale . Al contrario, sembra che Israele stia nettamente fallendo sotto questo punto di vista.

Così come ha tenuto a far notare il Ministro degli esteri britannico William Hague, vista le nuove dinamiche politiche createsi nella regione, Israele rischierebbe di rimanere sempre più isolato e di perdere il supporto internazionale nel caso di un’invasione via terra.
Più che di porci, come ha fatto il Washington Post, la domanda “Is Hamas winning the Twitter war?” (che personalmente ritengo commetta l’errore di considerare il solo gruppo politico e non la popolazione palestinese nel suo insieme), io credo che la questione sia un’altra: Israele sta perdendo la guerra dell’informazione?

In un mondo sempre più interconnesso, l’opinione pubblica ha oramai la possibilità di mettere in discussione le interpretazioni dominanti fornite dai governi e dai media mainstream, divenendo parte attiva nella costruzione di narrazioni alternative e nella descrizione degli eventi.
Ci si chiede perciò se l’impegno di Israele nell’uso dei social network ai fini propagandistici sarà sufficiente per vincere la cosiddetta “battaglia dei cuori e delle menti”, condizione necessaria per mantenere quel consenso così fortemente necessario per la politica estera israeliana.

Veronica Orrù | @verocrok 
Matteo Castellani Tarabini | @contepaz83


Gaza and Israel: the media narration in web 2.0

During the last few days, after the beginning of the Israeli offensive called Pillar of Cloud, we have assisted to a debate on the role of social media in what has been renominated the "Twitter war".

In order to do a more accurate analysis, it would be useful to proceed by historical points, finding the changes happened in the world of information regarding that particular conflict. Since the birth of Israel, the Palestinians had very little relevance on media, which focalized their articles on the conflict between the main Arabic countries and the newly born Israeli democracy. The image of a conflict between a Jewish country and the Arabic states was perfect for the narrative logics of international media and at the same time condemned Palestinians to a people without name and without identity.

The attempt on the Israeli side to forbid the use of the term "Palestinian State" was very persistent. For this purpose, Golda Meir's statements at the Sunday Times in 1969 were quite functional: “There were no such thing as Palestinians.[…] They didn't exist.”
So the moment came to create the necessary condition for which it was possible to obtain a space inside the international mediatic narrations: building a strong Palestinian identity.

Fatah managed to propose a Palestinian image to offer the public opinion and through the Entifade of 1987 the process many called "palestinization" of the conflict began. In spite of this, the mainstream media (tvs and news reports) continued to allign to political sources (Israeli and American), leaving the Palestinian narration on the side. This was much in evidence during the so called Camp David agreements, where Israeli mounted a media machine that was started the day after Arafat's denial that brought to the failure of negotiations. All mainstream media accepted the Israeli version and nobody, except for some isolated opinion articles that didn't mine the dominant interpretation anyway, proposed to research the motive of the decline of Israeli offers by the Fatah leader.

It will only be with the arrival of Internet that Palestinians will be able to have their redemption.
Before the Molten Lead Operation, the only information (regarding both daily life and political analyses) external to mainstream media were available mainly on activists blogs (first of all, in Italy, Vittorio Arrigoni's) and the NPOs (Amnesty International among others). The use of social networks was still not diffused as capillarly at a world level, and Twitter, Facebook and Tumblr were still not seen as a tool to diffuse news. It seems obvious that the operation Pillar of Cloud is different from the others under this particular point of view.

Twitter, thanks to its capacity to easily manage the enormous flow of information, has become the most reliable mean for news diffusion. Now all of the mainstream media have a Twitter account and manage pages exclusively dedicated to Twitter live-tweeting on their websites. Journalists of the most important newspapers use their own personal account to report breaking news, articles of their online newspaper and of their personal blogs. Many activists and freelance journalists, first of all @harryfear, have started to give minute-by-minute updates on the situation in Gaza.

What is even more surprising was the use of social media to announce the beginning of the operations and offer constant updates, both propaganda and regarding the operations themselves.

As I write, the account @IDFSpokesperson has had an increase of about 130.000 followers (from 71.000 at the beginning of the operations to 200.000), while @AlqassamBrigade, account of the military arm of Hamas, has increased its followers tenfold in 8 days. As Augusto Valeriani, Professor of Mass Media and International Conflicts at the University of Forlì writes in his blog, Israel has posed among its priorities the planning of a "proper Twitter and social campaign": the propaganda videos are perfectly adapted to the communication timings of social media marketing. Valeriani believes that Israel dominates the "social dimension of the conflict", but in my opinion the Israeli supremacy becomes less and less stable every day.

The pictures of killed children and the damages caused by drones in the Gaza strip are retweeted continuously with the hashtags #warcrimes and #humanrights. The hashtag #Gazaunderattack has had an enormous number of retweets, many more than those created by Israel, #PillarofDefense and #Israelonfire.

The movement of hacktivists called Anonymous, through the #OPIsrael announcement, has declared to sustain the Palestinian cause, managing to attack thousands of Israeli and pro-Israwli websites (among which the IDF and AIPAC), suggesting to strip inhabitants how to re-establish an Internet connection in case it was interrupted by the Israeli government.

As many noticed, Palestinians and supporters of their cause have understood that the communication successes of the Arab Spring derived from the fact that, in the world of web 2.0, it was necessary to adapt to a horizontal communication. On the contrary, it seems that Israel is definitely failing from this point of view.

As the British Foreign Affairs Minister William Hague pointed out, given the new political dynamics created in the region, Israel risks to remain more and more isolated and lose the international support in case of an invasion.

Rather than ask ourselves, as the Washington Post did, the question "Is Hamas winning the Twitter war?" (which personally I believe makes the mistake of considering just the political group and not the Palestinian population in its entirety), I believe the matter is different: is Israel losing that war of information?

In a world that is more and more connected, public opinion has the possibility to put in discussion the dominant interpretations given by governments and mainstream media, becoming an active part of the building of alternative narrations and the description of events.

We ask ourselves whether Israel's work in the use of social media for propaganda will be sufficient to win the so called "battle of hearts and minds", a necessary condition to maintain that consensus that is so necessary for Israeli foreign politics.

Veronica Orrù | @verocrok 
Matteo Castellani Tarabini | @contepaz83

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