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martedì 8 gennaio 2013

Requiem per la Moda pt. 1



Nel 1968, in una Parigi invasa dalle proteste studentesche, Cristobal Balenciaga chiudeva il suo atelier, dichiarando che nel mondo per la Couture ormai non c’era più posto.

Si sbagliava, ma non di molto.
Perché se oggi l’Alta Moda continua a vivere (quantomeno sui red carpet hollywoodiani e nei guardaroba delle ereditiere kazhake) la Moda  - quella con la M maiuscola - poveretta è bell’e morta da un pezzo.
Le ragioni di questa dipartita sono due.

La moda è ostaggio dei numeri

Tutti sanno che, oggigiorno, le maison di moda non assomigliano a romantici atelier con luci soffuse e sartine chine sul ricamo, ma piuttosto a corporation multinazionali, che rispondono alle logiche di mercato e agli investitori.

Il che non è necessariamente un male. Quelli che avevano un nome da spendere – spesso eccellenze italiane incapaci di superare la dimensione familiare dell’azienda –hanno trovato la salvezza con l’ingresso di grossi investitori ( LVMH e PPR: sì, parlo di voi).
Operazioni di questo tipo hanno definito il lusso nell’ultimo decennio.

Gigantesche campagne di marketing, accompagnate da una studiatissima comunicazione, hanno forgiato il concetto di Heritage, alimentando il sogno intorno ai brand. Ma hanno reso anche in altri termini, considerato che le azioni di queste maison crescono a doppia cifra in borsa nonostante la crisi attuale.

In un panorama come questo, tuttavia, una cosa è chiara: per sopravvivere l’essenziale è fare numeri:  inevitabile quindi che la parola d’ordine sia per tutti “moltiplicare”.
Quindi inventa le pre-collezioni e voilà: la stagioni da due diventano quattro. Frammenta ogni collezione di molteplici temi, per scaglionare gli arrivi in boutique e far sì che ogni mese ci siano nuovi prodotti ad occhieggiare in vetrina.

Crea le linee secondarie (che tanto quelle si delocalizzano in Far East) e lo stesso stile declinato per diverse fasce di prezzo. E non dimenticare il vero asso nella manica, le licenze.
Fai un accordo con un colosso della cosmesi, per mettere il tuo nome su makeup e fragranze, che hanno markup altissimi (così come accade per gli occhiali da sole i bijoux).

Con la collezione Living, per converso, non ci fai cassa ( a meno di trovare qualche partnership con l’hotellerie). In compenso,  conferisce al tuo brand quell’auotrevolezza che solo un divano in Palissandro del Madagascar sabbiato a mano può trasmettere.  Più facile, naturalmente, buttarsi sui complementi e tessili d’arredo, anche se il rischio Pierre Cardin è dietro l’angolo.

Comunque sia, il gioco è divertente e si potrebbe andare avanti anche all’infinito, se non fosse che si è trascurato un piccolo dettaglio.

Stare dietro a questi ritmi, per un comune mortale, non è umanamente possibile (e francamente anche provarci mi par ridicolo).
È tutto troppo veloce.

[to be continued]

Elisa Motterle | @downtowndoll


Requiem for Fashion part 1

In 1968, in a Paris invaded by student protests, Cristobal Balenciaga closed his atelier, declaring the there was no more place for Couture in the world.

He was wrong, but not very.
Because if today High Fashion continues to exist (at least on Hollywood's red carpets and the wardrobes of Khazak aristocracy) the Fashion - the one with the capital F - has been dead for quite a while.
The reasons for this demise are two.

Fashion is a hostage of numbers

Everybody knows that today, the fashion maisons don't look like romantic ateliers with dim lights and seamstresses concentrated on their work, but rather to multinational corporations that answer to market logics and investors.

Which isn't necessarily bad. Those who had a name to spend - often Italian excellence incapable of going beyond the family size of the company - have found safety with the entrance of big investors (LVMH and PPR: yes, I'm talking about you). Operations like these have defined the luxury market of the last decade.

Giant marketing campaigns, along with a well studied communication, have forged the concept of Heritage, feeding the dream around brands. But they have also had another effect, considering that the actions of these maisons grow by a double digit percentage on the stock markets in spite of the economic crisis.

In a scenario like this, one thing is clear: in order to survive the essencial is to hit the numbers. So it is inevitable that the imperative is to "multiply". So we invent pre-collections and voilà: the seasons from two become four. Fragment each collection in several themes, in order to divide the arrivals at the boutique and make sure that every month there's something new shimmering in the window.

Create secondary lines (they get delocalized in the Far East anyway), and the same style declined by price rage. And don't forget the true ace up the sleeve, the licenses. Make a deal with a giant player in the make-up business, to put your name on makeup and fragrances, which have extremely high markups (just as it happens for sunglasses by jewellery houses).

With the Living collection, on the other hand, you don't make money (unless you find a deal or partnership with hotels). But it does give your brand that kind of authority that only a sofa in Madagascar palissandre worked by hand can give. Easier to go for furniture textiles, but the Pierre Cardin risk is behind the corner.

However it is, the game is fun and we could go on forever, if it wasn't for one small detail. Keeping up with this pace, for a common mortal, isn't humanly possible (and honestly even trying seems ridiculous to me).

It's all too fast.

[to be continued]

Elisa Motterle | @downtowndoll

2 commenti :

luca ha detto...

essere alla moda è sempre stato facile, avere stile molto meno ;)

elisa motterle ha detto...

Essere alla moda è una questione di inclusione.
Lo stile invece è fatto di rinunce

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