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mercoledì 24 aprile 2013

#Socialmedia e il mondo online come sacra reliquia



Per secoli si è parlato della ricerca del Sacro Graal, descritto nelle storie come la coppa da cui Gesù bevve durante l'Ultima Cena.

In verità, le icone associate a Gesù e ad altre figure sacre sono state sempre molto richieste. Durante il Medioevo, le città creavano usanze di devozione basate sulla mascella o sull'unghia di un santo che la chiesa locale custodiva. Queste reliquie erano portate in battaglia e supplicate quando la situazione diventava difficile. Le persone credevano, e molte credono ancora, che questi oggetti - sacri per associazione - possano risolvere ogni male.

Di questi tempi, per quanto sacrilego questo possa sembrare, i social media hanno quasi ottenuto lo status di una di queste sacre reliquie. Se si guarda al mondo online in un certo modo, e con dei paraocchi importanti, i social media hanno il potenziale per curare quasi ogni male. Se ci mettiamo insieme online, possiamo raccogliere abbastanza soldi per risolvere il problema della fame nel mondo. Le persone sole trovano compagnia. I disoccupati trovano lavoro, o diventando consulenti social media loro stesi oppure promuovendo la propria attività online in modo da ottenere il tipo di lavoro che desiderano. I depressi possono trovare la felicità semplicemente chiedendo attenzione su Facebook e Twitter. I malati possono trovare energia positiva postando la loro situazione online. In effetti, i social media sembrano avere il potere per rispondere a tutte le domande e guarire ogni male.

Durante l'era delle icone, chiaramente c'era anche uno svantaggio. Le sacre reliquie del passato venivano a volte rubate. Le città andavano in guerra per decidere a chi appartenesse realmente la reliquia o da chi il santo voleva che la reliquia andasse. A volte, forse, la reliquia non funzionava come pianificato, e le persone erano lasciate a valutare sotto quale tipo di maledizione vivessero, tale da rendere il sacro oggetto inefficiente nel tentativo di risolvere i problemi delle loro vite.

Allo stesso modo, il potere dei social media ha molti svantaggi, ma temo che la società moderna, sedotta dal loro potere, possa essere cieca nell'individuarli. Le persone seguono i "guru" online senza discutere, e sono ispirate da numeri come ad esempio quello dei follower che una persona ha su Twitter. Le persone iniziano a investire in connessioni online a spese della propria famiglia e dei propri amici di una vita. E poi c'era la vignetta che circolava qualche anno fa, che illustrava i funerali di una social media star molto popolare. Erano venute solo un paio di persone.

Mi preoccupo del fatto che stiamo entrando in un periodo in cui diventeremo troppo fiduciosi nel potere apparente del mondo online. Inizieremo davvero a credere che i social media potranno curare i nostri mali, e nutriremo la nostra dipendenza da social media perché siamo convinti che ne avremo vantaggi in proporzione. Questa, tuttavia, è una casa costruita sulle sabbie mobili. Alla fine i social media ci invitano, più di qualsiasi altra cosa, ad essere narcisisti, egoisti, e auto-celebrativi. Se facciamo tutte queste cose, come possiamo essere generosi come vorremmo far credere di essere? Che cosa succederà quando le persone capiranno che la loro comprensione dei social media come reliquia moderna era una mitologia e nulla più?

Gli esseri umani sono sempre stati affascinati dal proiettile d'argento, il modo più veloce per rendere tutto perfetto. I social media sembrano essere, per alcuni, l'ultimo esempio di questo tipo. Io ho paura di quelle persone. Voi no?

Marjorie Clayman | @margieclayman


The online world as a holy relic


For centuries now, people have talked about the search for the Holy Grail, told in stories to be the cup Jesus drank from at the Last Supper.

Indeed, icons associated with Jesus and other holy figures have always been in high demand. During the Middle Ages, towns would create devotional customs based around a saint’s jawbone or fingernail that the local church guarded. These relics were carried into battle and were pleaded with when times got tough. People believed, and many still believe, that these objects, holy by association, can fix all evils.

These days, as sacrilegious as it may seem, social media has nearly attained the status of one of these sacred relics. If you look at the online world in a certain way, and with significant blinders on, social media carries the potential to cure almost all evils. If we band together online, we can raise enough money to solve the hunger problem in the world. Lonely people can find companionship. The unemployed can find jobs, either by becoming social media consultants themselves or promoting themselves online so that they can get the kinds of jobs they want. The depressed can find happiness merely by crying out for attention on Twitter or Facebook. The sick can receive positive energy by posting their situations online. Indeed, social media seems to have the power to answer all questions and cure all ills.

During the age of the Icons, there was of course a downside. The sacred relics of the past were sometimes stolen. Towns sometimes went to war over who really owned the relic or to whom the saint most wanted the relic to go to. Sometimes, perhaps, the relic would not work as planned, and people were left to ponder what kind of curse they lived under that this obviously sacred item did not fix their lives.

Similarly, the power of social media has many downsides, but I fear that modern society, seduced by its power, may be blinded to them. People follow online “gurus” without question and are inspired by numbers like how many followers a person has on Twitter. People begin to invest in online connections at the expense of their family and long-time friends. Then there is the comic that circulated a few years ago showing the funeral of a very popular social media star. Only a couple of people showed up.

I worry that we are heading into a time when we will become too reliant on the apparent power of the online world. We will really begin to believe that social media can cure our ills, and we will feed our addiction to social media because we assume what we will get back will be equivalent in value. This, however, is a house made on quick sand. In the end, social media invites us, more than anything else, to be self-centered, narcissistic, selfish, and self-promotional. If we are all doing those things, how can we be as giving as people may think we are? What will happen to people when they realize that their understanding of social media as a modern relic was a mythology and nothing more?

Humans have always been fascinated by the “silver bullet,” the quickest way to make everything perfect. Social Media seems, to some, to be the latest example. I fear for those people. Don’t you?

Marjorie Clayman | @margieclayman

giovedì 28 marzo 2013

La morte della condivisione e la Rete gossippara



Recentemente, durante una lezione, spiegavo ai miei studenti che “la condivisione è uno degli atti che possiamo compiere e che innesca la viralità dei contenuti, insieme con il voto (leggi “like” o “+1”) e il commento”. 

Mentre parlavo mi sono reso conto, però, che il concetto di condivisione che stavo spiegando era puramente meccanico ed emozionale: un paio di click, magari una riga per dire quanto piaceva o non piaceva quel contenuto e via. Il tutto, però era, ed è, piuttosto lontano da quello che solo pochi anni fa, intesseva di sé la “filosofia di Internet”.

Giuseppe Granieri, nel suo Blog generation, spiega bene come i blogger fossero dediti a trovare “contenuti interessanti in Rete e a condividerli con gli altri”. Un lavoro a volte certosino di ricerca, selezione e “messa a disposizione collettiva” di nuovo sapere. D’altronde la Rete stessa, non certo Arpanet ma Internet in sé, nacque per collegare Università e quindi “mettere a sistema” il sapere. L’obiettivo era la tanto sbandierata “intelligenza collettiva, superiore alla semplice somma di quelle che la compongono”. In buona sostanza il concetto era che il ragionare insieme, il mettere in rete le intelligenze, avrebbe portato a un arricchimento collettivo altrimenti irraggiungibile separatamente.

Tornando a ciò che stavo spiegando ai miei studenti, appare evidente che non sia più così. Si condivide nell’ottica della semplice trasmissione di una informazione, poco di diverso dalla tendenza, nelle riunioni fra amici, del dire “ma lo sai cosa è successo o cosa hanno fatto Tizio o a Caio?” e ad accompagnare e ad accogliere questa informazione solo espressioni emotive, istintive: bello, brutto, divertente, sconcertante, incredibile, ecc. La torsione del concetto di condivisione, operata dai Social Network lo ha portato molto ma molto vicino a ciò che viene chiamato Gossip. Più che “condividi”, lo script di Facebook si dovrebbe chiamare “trasmetti” o “spiffera”.

E’ la dinamica del passaparola, mi risponderà qualcuno. In fondo, il web altro non è che la proiezione digitale della società umana e quindi ne replica le dinamiche, bello o brutte che siano. Qui però il problema non è che questo fenomeno sia bello o brutto, giusto o sbagliato è che non ci porta a nulla, anzi, ci crea parecchi problemi, a cominciare ad esempio, dalla sempre minore affidabilità delle informazioni che viaggiano sulla Rete. La dinamica del gossip non prevede ovviamente né una verifica della veridicità dell’informazione né, tantomeno, alcuna preoccupazione in termini di responsabilità rispetto al fatto che, comunque, stiamo “pubblicando qualcosa”.

Se a questo aggiungiamo i tempi del Web e le dinamiche dell’attenzione delle persone, appare abbastanza ovvio che, alla fine, si reagisca in maniera istintiva, immediata, trasmettendo emozioni e non “sapere” e che, anzi, si tenda ad evitare di usufruire di contenuti complessi, impegnativi. Anche questo post, per esempio, sarà sicuramente troppo lungo per la maggior parte delle persone che ci entreranno in contatto.

Ma che ne è del buon Jon Postel, vero padre fondatore di Internet, che nel 1981, postulava la legge che porta il suo nome e che descrive il “funzionamento sociale” della Rete: “Sii prudente in quello che fai, sii liberale in quello che accetti dagli altri” (“be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others"), che poi vuol dire che in Rete è necessario essere “prudenti” e quindi rigorosi, rispettosi, esatti e precisi per quel che riguarda ciò che si propone agli altri. Mentre bisogna essere “liberali” ovvero disposti ad ascoltare e favorire e rispettare la libertà di pensiero e d'iniziativa altrui nell’atto di ricevere.

In sostanza Postel postulò che la Rete è un ecosistema sociale il cui motore è la comunicazione basata sullo scambio, sull’ascolto, sul rispetto dell’altro, sull’apporto di valore da parte di ognuno, sull’interazione. Chi entra e comunica in Rete si assume una responsabilità per ciò che dice o fa ma anche una responsabilità verso l’altro, ovvero l’impegno a interagire, ad ascoltare, a condividere. Appunto, a condividere, in un’ottica di impegno e contributo in termini di valore, non certo di gossip.

Questa legge è ormai lettera morta, in una Rete dove fluiscono miliardi di contenuti e in cui la viralità è uno strumento sempre più incoraggiato per fini commerciali e dove finanche i cosiddetti influencers si misurano non tanto sulla qualità di ciò che dicono quanto su quanto riescano a ingaggiare le loro communities: la visibilità prima di tutto.

Mi rileggo e ho la sensazione di aver parlato come i simpatici vecchietti che dicono “eh, ai miei tempi le cose erano diverse”. Sarà, ma io continuo a pensare che questa Rete gossippara e sempre più simile alla televisione commerciale sia, più che altro, una gigantesca occasione mancata.

Daniele Chieffi | @danielechieffi


The death of sharing and the gossipy Web

Recently during one of my lessons, I was explaining to my students that "sharing is one of the things we can do that triggers the virality of content, along with the vote (read "like" or "+1") and the comment."

As I was talking I realized, however, that the concept of sharing that I was explaining was purely mechanical and emotional: a couple of clicks, perhaps a line to explain why we like or dislike that content and that's it. It is all very far from what, just a few years a go, made the "philosophy of the Internet".

Giuseppe Granieri, in his Blog generation, explains very well how bloggers were dedicated to finding "interesting content on the web and sharing it with others". A sometimes weary work of research, selection and publication of new knowledge. The web itself, not Arpanet but Internet itself, was born to connect Universities and make knowledge available. The goal was the much advertised "collective intelligence, superior to the simple sum of the ones composing it". In essence, the concept was that reasoning together, putting intelligences together, would have brought to a collective enrichment that was impossible to reach separately.

Coming back to what I was explaining to my students, it appears obvious that it's not like that anymore. We share in the optic of the simple transmission of an information, not very different from the tendency, during friends reunions, of saying "do you know what happened or what Tizio or Caio did"? and to accompany this information only with emotional instinctive expressions: nice ugly, funny, surprising, incredible, and so on. The torsion of the concept of sharing, oeprated by social networks, has taken it much nearer what is commonly called Gossip. More than "Share", the Facebook button should be called "Transmit" or "Whisper".

It's the word of mouth dynamic, someone will answer me. In the end, the web is nothing more than the digital projection of human society and thus replicates its dynamics, whether they be nice or ugly. Here the problem isn't that the phenomenon is ugly or beautiful, right or wrong, it's that it doesn't take us anywhere, and actually only creates more problems, starting for example from the scarce reliability of information travelling on the web. The gossip dynamics doesn't include a verification of the veridicity of information per se, nor any preoccupation in terms of responsibility of the fact that we're actually publishing something.

If we add the times of the Web and the dynamics of people's attention, it appears pretty obvious that, in the end, we react in an instinctive, immediate way, trnsmitting emotions and not "knowledge" and that we tend to avoid complex content. This post itself, for example, will surely be too long for the majority of people who will see it.

But what happened to the good Jon Postel, true founding father of the Internet, who in 1981 formulated the law which carries his name and that describes the social function of the web: "Be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others", which means that online it is necessary to be careful, and thus rigorous, respectful, exact and precise regarding what we propose to others. And we must be liberal,  which means open to listen and favor and respect the freedom of thought and initiative of others in the act of receiving.

In substance Postel said that the web is a social ecosystem in which the engine is the communication based on exchange, listening, respect of one another, bringing value, interaction. Who enters and communicates online has the responsibility for what they say and does, but also a responsibility towards the others, which is the taslk of interacting, listening, sharing. Sharing in a view of added value, not gossip.

This law is now dead, on a web where billions of contents flow and in which the virality is a tool that is more and more encouraged for commercial reasons, and where even the so called influencers are measured not on the quality of what they say, but on how well they can engage their communities: visibility before everything else.

I read myself and I have the sensation of having written like those nice old people who say "well, when I was young things were quite different". Might be, but I continue to think that this gossipy web, more and more similar to the commercial television is, more than anything, a huge missed opportunity.

Daniele Chieffi | @danielechieffi 

mercoledì 20 marzo 2013

L'eredità di George Washington e il mondo online oggi



Recentemente ho letto un libro molto interessante chiamato "Sua Eccellenza George Washington", di Joseph Ellis. Nonostante il titolo, il libro non è molto lusinghiero nei confronti di George Washington. In realtà, il libro potrebbe presentare semplicemente Washington in una luce realistica, il che per noi americani può sembrare offensivo solo perché Washington è così mitizzato qui.

Ad ogni modo, una cosa di cui Ellis parla lungamente è il fatto che specialmente quando la Rivoluzione Americana stava finendo, George Washington si rese conto acutamente della sua stessa eredità. Cominciò a scrivere le lettere con la prospettiva che queste lettere sarebbero state viste e lette dalle generazioni a venire. Ogni gruppo con cui si associava, ogni amico che faceva, doveva essere visto nel contesto di come lui voleva essere visto dalle future generazioni. Aveva l'intuizione che sarebbe stato visto più come una leggenda che come un uomo perché le cose già stavano andando in questa direzione durante la sua vita, ma lui voleva assicurarsi che la sua eredità fosse impeccabile.

Quando parliamo di social media, quanto importante è l'eredità nei nostri pensieri? Sebbene non sia necessariamente preoccupata di come le future generazioni mi vedranno, mi piace comunque fare del mio meglio. Quando le persone che non mi conoscono vedono le mie interazioni su Facebook e Twitter, spero non siano allontanate. Spero che la loro prima reazione non sia "Wow, che idiota" o "Accidenti, che maleducazione". Spero che la mia prima interazione con qualcuno non sia basata sul fatto che quella persona si senta offesa da qualcosa che ho detto. In effetti, spero e faccio sì che le prime interazioni siano sempre basate su sentimenti positivi.

Non sono sicura che molte persone pensino a queste cose quando twittano e scrivono su Facebook, di questi tempi. C'è una tale pressione per rispondere per primi, rispondere rapidamente, essere un "esperto" e far evincere allo stesso tempo un senso di carisma e disponibilità. Come si può avere anche il tempo, nel costante flusso di dati e contenuti, per ponderare il modo in cui le persone ricevono i messaggi che stiamo buttando fuori? Ma penso che dobbiamo fermarci e considerare questo aspetto ogni tanto. Questo non significa che dobbiamo essere paralizzati dalla paura ogni volta che vogliamo dire qualcosa. E non è per dire che ogni tweet dovrebbe esser ragionato per venti minuti per immaginare come le persone potrebbero leggerlo fra tre anni. Ma vale la pena fermarsi ogni tanto e guardare la propria presenza online nella sua interezza. Come vi rispondono le persone? Come reagiscono a quel che state dicendo e quel che state facendo? Come verreste descritti dalle persone con cui interagite di più, se dovessero basarsi sulla vostra presenza sui social media?

Certo, non abbiamo lo stesso tipo di pressione come George Washington (il che potrebbe essere un fatto positivo o negativo per voi). Ma la vostra reputazione è comunque importante. Come le persone vi vedono è comunque importante, specialmente se usate i social media come parte integrante del vostro lavoro.

Vi siete mai fermati a considerare che cosa la vostra presenza online dice su di voi? Oppure come le persone interpretano i vostri tweet e status se vi conoscono solo attraverso quel medium?

Mi piacerebbe sentire cosa ne pensate!

Marjorie Clayman | @margieclayman


George Washington’s Legacy and Today’s Online World

I’ve been reading a very interesting book called His Excellency George Washington, by Joseph Ellis. Despite the title, the book is not highly complimentary of George Washington. Actually, the book may simply present Washington in a realistic light, which for us Americans can seem offensive only because Washington is so mythologized here. Anyway, one thing Ellis talks about at length is the fact that especially as the American Revolution came to an end, George Washington became acutely aware of his own legacy. He started writing letters with the perspective that these letters would be seen and read generations into the future. Every group he associated with, every friend he made, had to be viewed in the context of how he wanted to be seen by future generations. He had an inkling that he would be viewed more as a legend than as a man because things were already headed that way during his lifetime, but he wanted to make sure his legacy was pristine.

When we talk about social media, how much does our legacy enter into our mindset? While I am not necessarily worried about how future generations view me, I do like to put my best foot forward. When people who don’t know me see my Facebook or Twitter interactions, I hope they are not repelled. I hope their first reaction is NOT, “Wow, what an idiot!” or “Geeze, how rude.” I hope that my first interaction with someone is one not based on that person feeling offended by something I said. In fact, I hope for and strive for first interactions that would be based around positive feelings.

I’m not sure many people actually think about these things as they tweet and Facebook their ways through the days.  There is so much pressure to respond first, to respond quickly, to be an “expert,” and to also evince a sense of charisma and friendliness. How can you even have time, in the constant onslaught of data and content, to ponder how people are receiving the messages you are throwing out? But I think we need to stop and consider this every once in awhile. That’s not to say that we should be paralyzed with fear every time we set out to say something. It’s also not to say that every tweet should take you twenty minutes as you ponder how people three years in the future may read it. However, it is worthwhile to pause every now and again and look at your online presence as a whole. How are people responding to you? How are they reacting to what you are saying and what you are doing? How would the people you interact with most describe you based on your social media presence?

Sure, we are not under the same kind of pressure as George Washington (that may be a positive or a negative for you). But your reputation is still important. How people view you is still important, especially if you are using social media as part of your job.

Have you stopped to consider what your online presence is saying about you? How would people interpret your tweets and updates if they only knew you through that medium?

We’d love to hear your thoughts!

Marjorie Clayman | @margieclayman

martedì 5 marzo 2013

L'arroganza può far cadere un impero



Nel corso della mia serie di storia qui a Intervistato, abbiamo già parlato di Roma un paio di volte. Abbiamo parlato di come i Romani abbiano continuato a trattare male i Visigoti, e come ciò portò infine al sacco di Roma ed effettivamente alla fine dell'Impero Romano. Abbiamo parlato anche di Annibale e i suoi elefanti, che sorpresero Roma con un'idea molto fuori dal comune.

Roma - il suo potere e la sua caduta - può insegnarci molto su come possiamo presentarci e conservarci nel mondo online. Fin dall'inizio, i Romani pensavano di essere una forza con cui fare i conti. Conquistaronoi vicini, poi le regioni, e finalmente interi Paesi. Diedero vita a battaglie epiche, inglobarono altre culture nella propria, e crearono un impero che è davvero difficile da immaginare nel mondo moderno, molto più frammentario. Per molto tempo, sembrò che l'impero Romano non potesse essere sconfitto. Era il centro di potere più forte del mondo. Niente poteva cambiare le cose.

A dire il vero, la spaccatura definitiva per l'impero Romano fu la sua stessa tracotanza. Se qualcuno pensava davvero che Roma fosse impossibile da conquistare, erano proprio i Romani. Pensavano di poter trattare tutti in qualsiasi maniera, senza subire alcuna consegenza. Era questa credenza, non un esercito, non una persona, che finalmente causò la caduta di Roma. I Romani erano così tanto sicuri di essere invincibili che fallirono nel vedere quando i tempi cominciarono a cambiare. Fallirono nel leggere i segnali tutto intorno a loro.

Nel mondo dei social media, l'arroganza può essere un nemico esattamente allo stesso modo. Quando cominciamo con i social media, si spera che crediamo in noi stessi e nelle nostre capacità. Mentre il tempo passa, cominciamo ad acquisire follower su Twitter. I nostri blog ricevono più commenti e più sottoscrizioni. La pagina fan comincia ad acquistare più fan. E' difficile, specialmente con questo tipo di lessico, non sentirsi fiduciosi. Avete dei follower! E' incredibile, vero?

Più si sta nel mondo online, e più questo vapore si accumula. Forse adesso le persone ti chiamano un esperto o modello, o leader di pensiero. Cominci a sentire che non puoi sbagliare. Se qualcuno ti accusa di sbagliare, i tuoi followers e amici attaccano quella persona e la liquidano come "invidiosa". Il mondo, come si usa dire, è la tua ostrica.

Ed è qui che le cose diventano pericolose.

Quando si diventa troppo arroganti, ci si può trovare ad attaccare le persone senza un reale motivo. Si crea distanza persino con gli amici. I supporter forse non vogliono più essere associati al tuo nome. L'impero inizia a tremare. E sì, può succedere anche a te. E' successo all'Impero Romano!

Non lasciate che l'arroganza vi renda deboli. Non c'è niente di sbagliato nell'essere fiduciosi, ma esagerare può avere solo conseguenze negative per voi e coloro che vi stanno attorno. Siate cauti.

Marjorie Clayman | @margieclayman


Arrogance can take down your Empire

Over the course of my history series here at Intervistato, we’ve already talked about Rome a couple of times. We talked about how the Romans kept mistreating the Visigoths and how that eventually led to the sack of Rome and really, the end of the Roman empire. We also talked more recently about Hannibal and his elephants, who took Rome by surprise as a result of out-of-the-box thinking.

Rome – its power and its fall – can teach us a lot about how we can present ourselves and preserve ourselves in the online world. From the beginning, Romans believed they were a force to be reckoned with. They conquered their neighbors, then they conquered regions, and finally they took over entire countries. They hosted epic battles, enveloped other cultures into their own, and grew an empire that really is hard to imagine in today’s more segmented modern world. For a long time, it seemed like the Roman empire could not be defeated. It was the most powerful core of strength in the world. Nothing could unseat it.

Of course, the ultimate crack in Rome’s empire was its own hubris. If anybody believed Rome was unconquerable, it was the Romans. They believed they could treat anyone in any way without consequences. It was that belief, not one single army, not one single person, that ultimately caused Rome’s downfall. The Romans were so sure they were invincible that they failed to see when times began to change. They failed to read the signs that were all around them.

In the world of social media, arrogance can be an enemy in the exact same way. When we start out in social media, we hopefully believe in ourselves and our capabilities. As time goes on, we start to gain followers on Twitter. Maybe our blogs start getting more comments and more subscribers. Your Facebook page may start to earn you more “friends” or “fans.” It’s hard, especially with that kind of terminology, not to feel pretty confident. You have followers! That is pretty amazing, right?

The longer you stay on in the online world, the more this steam can build up. Maybe now people are calling you an expert or a role model or a thought leader. You’re starting to feel like you can’t do anything wrong. If someone accuses you of being wrong, your followers and friends attack that person or you dismiss them by calling them a “hater.” The world, as they say, is your oyster.

That’s where it gets dangerous.

When you get too arrogant, you can find yourself lashing out at people for no real reason. You can create distance between yourself and your friends. Your supporters may not want to be associated with you any more. Your empire will start to crumble. Oh yes, it can happen to you. It happened to the Roman empire.

Don’t let arrogance make you weak. There is nothing wrong with being confident, but taking it too far can only have negative repercussions for you and those around you. Be cautious.

Marjorie Clayman | @margieclayman

lunedì 11 febbraio 2013

5 consigli #socialmedia tratti dagli insegnamenti del Buddha



A volte è importante ricordare che, quando si ha a che fare con i social media, non si sparisce come persone. Non si diventa avatar bidimensionali come quelli sullo schermo, e questo non avviene neppure per le persone con cui comunichiamo. Ci mettiamo in contatto, abbiamo a che fare e comunichiamo con persone reali che hanno le loro preoccupazioni, le loro motivazioni, e le loro vite.

Tenendo questo in mente, ho pensato che sarebbe utile ricordare alcuni degli insegnamenti del Buddha. Sono preziosi per le nostre vite, e quindi possiamo farne uso anche nel mondo digitale, cosa che lui probabilmente non avrebbe mai immaginato.

Un amico non sincero e cattivo è da temere più di una bestia selvaggia; una bestia selvaggia può ferire il tuo corpo, ma un amico cattivo ferirà la tua mente.

Molto spesso nel mondo online, incontreremo persone che sono lì semplicemente per farsi un nome. Può sembrare che tentino di costruire relazioni, ma potresti venire a sapere che diffondono dicerie a proposito delle persone, le usano, oppure nascondono in qualche modo il vero motivo per cui vi stanno contattando. Allo stesso tempo, può sembrare facile ingaggiare questo genere di comportamenti se ci si dimentica che le persone con cui abbiamo a che fare hanno vite che si estendono molto al di là di Facebook e Twitter. La malizia e la mancanza di sincerità possono ferire, anche se iniziano la loro esistenza sullo schermo di un computer.

Tenersi aggrappati alla rabbia è come tenere in mano un carbone ardente con l'intento di gettarlo verso qualcun altro; sei tu quello che rimane bruciato.

Può essere facile venire trascinati in diatribe verbali nel mondo online. Come ricorda la citazione qui sopra, tuttavia, siamo noi ad apparire in cattiva luce quando vi partecipiamo, nche se "è stata l'altra persona a iniziare". Le persone che vi seguono vedranno - molto probabilmente - solo il vostro lato della discussione. E' questo ciò che volete che vedano?

Non importa quante parole buone leggerai, o quanto ne pronuncerai, che bene ti faranno se non agisci di conseguenza? 

Parlare tanto per parlare è molto facile online. Ma siete veramente attenti a ciò che dite? Date seguito con azioni alle vostre parole? Le persone tengono conto se lo fate o no, e se non lo fate, la vostra credibilità potrebbe essere messa in discussione.

Non vedo mai ciò che è stato fatto; vedo solo ciò che rimane da fare.

Vi capita mai di guardare ciò che avete fatto e pensare "Ecco, finalmente ho raggiunto l'obiettivo che mi ero posto?" Nel mondo online, è facile cadere in questa trappola. Quando il vostro blog raggiunge un certo numero di sottoscrizioni, quando raggiungete un certo numero di follower su Twitter oppure di fan su Facebook, potete fermarvi a pensare "Ebbene, cos'altro devo dimostrare?" E' importante ricordare che c'è sempre spazio per fare di meglio, per crescere, e imparare qualcosa di più.

L'unico vero fallimento nella vita è non essere coerenti con ciò che si sa al meglio.

Quando cominciate il vostro percorso sui social media, è facile pensare che la fama e la fortuna sono dietro l'angolo. Basta incontrare le persone giuste e fare le cose che vi porteranno là dove pensate di voler andare. Quando avvicinate queste persone o quando queste opportunità si presentano, può essere facile perdere la propria bussola personale. Potete trovarvi a fare cose che non vi sentite a vostro agio a fare. In alcuni casi è una cosa buona. Può portare a crescere. Ma in altri casi, potete trovarvi a fare cose che in fondo sentite che non era corretto fare. Assicuratevi di usare la vostra moralità per guidarvi nel mondo online.

Spero che questi insegnamenti del Buddha vi abbiano aiutati a chiarire un po' i termini in cui ci si può approcciare ai social media. Quali altre lezioni aggiungereste?

Marjorie Clayman | @margieclayman


Five important reminders from the teachings of Buddha

Sometimes it is important to remember that when you engage in social media, you are not disappearing as a person. You are not becoming the 2-dimensional avatar you see on your screen, nor are the people with whom you are communicating. You are still connecting with, dealing with, and communicating with other real live people who have their own concerns, their own motivations, and their own lives.

With that in mind, I thought it would be helpful to be reminded of some of the teachings Buddha offered. They are valuable for our lives, and thus we can also make use of them as we live in the digital world, which he never could have imagined in his wildest dreams.

An insincere and evil friend is more to be feared than a wild beast; a wild beast may wound your body, but an evil friend will wound your mind.

Often times in the online world, you will encounter people who are simply out to build a name for themselves. They may seem like they are trying to build relationships, but you may come to find that they spread rumors about people, use people, or otherwise misrepresent why they are reaching out to you. Likewise, it can seem easy to engage in these kinds of behaviors if you forget that the people you are dealing with have lives that extend far beyond Twitter or Facebook. Insincerity and maliciousness can still hurt, even if they just begin their existence on a computer screen.

Holding on to anger is like grasping a hot coal with the intent of throwing it at someone else; you are the one who gets burned.

It can be easy to get drawn into verbal spats in the online world. Like the above quote reminds us, however, we often are the ones who look bad when we participate, even if “the other person started it.” People who follow you will only see your side of the debate (most likely). Is that what you want them to see?

However many holy words you read, however many you speak, what good will they do you if you do not act on upon them?

Talking a big talk is very easy online. Do you actually mind what you say? Do you walk your talk? People keep track of whether you do or not, and if you don’t it can call your credibility into question.

I never see what has been done; I only see what remains to be done.

Do you ever look at what you have accomplished and think, “There, I’ve finally achieved what I set out to achieve”?  In the online world, it can be easy to fall into this trap. When your blog reaches a certain number of subscribers, when you reach a certain amount of Twitter followers or Facebook fans, you can stop and think, “Well, what more do I have to prove?” It is important to remember that there is always room for growth, always room for improvement, and always room for learning more.

The only real failure in life is not to be true to the best one knows. 

When you start on your social media journey, it is easy to feel like fame and fortune are just around the corner. You just need to meet the right people and do the things that will get you to where you think you want to go. When you approach these people or when these opportunities come before you, it can be easy to lose your own personal compass. You may find yourself doing things you aren’t really comfortable doing. In some case that is good. That can lead to growth. But in other cases, you can do things that in the end you do not feel were right to do. Make sure you use your own morality to guide you in the online world.

I hope these teachings from Buddha have helped center you a little in terms of how you approach social media. What lessons would you add?

Marjorie Clayman | @margieclayman

venerdì 7 dicembre 2012

Le 60 domande dei lettori a @beppe_grillo, tra #parlamentarie ed #elezioni2013



Anche il Movimento 5 Stelle ha avuto le sue primarie, le parlamentarie, per selezionare quali saranno i candidati per le prossime elezioni politiche del 2013, sul giorno specifico siamo in pieno rebus.


1400 persone, attivisti, per 95.000 voti raccolti online, lontani dagli oltre 3 milioni del csx, ma comunque tutti degni d'attenzione e non solo per i sondaggi, ma perché l'm5s potrebbe essere portatore di temi "provenienti dal basso". Così, anche stavolta, sta diventando un nostro format, abbiamo raccolto le domande dalla rete da rivolgere a Beppe Grillo, portavoce del movimento, e agli attivisti che vorranno rispondere. Si chiede del grado di democrazia interna al movimento, tema più volte focalizzato anche dai media, ma anche sulle modalità su cui gli attivisti affronteranno i temi dell'agenda del paese: dal reddito garantito alla politica economica, dall'Ilva agli inceneritori.

Si chiede a Grillo e al movimento di entrare nel merito delle cose e di raccontare quali saranno i provvedimenti che intendono realizzare per rendere l'Italia un paese contemporaneo sotto ogni aspetto. C'è anche la rete e i temi della democrazia elettronica, tanti cari da sempre a Grillo, sin dai primi passi mossi nel campo della politica, sin dall'organizzazione dei meet-up. In pratica le domande servono per sapere quale sarà il design di uno stato 5 stelle.

Ci è sembrato giusto dare attenzione al m5s perché rappresenta una grande novità e un elemento di rottura con al passato dello scenario politico italiano, cresciuto nel tempo, non così breve in fondo visto che oramai sono circa 10 anni, e che ha degli elementi di analogia con la prima Lega Nord di bossiana memoria, naturalmente con tutti i distinguo del caso.

Vorremmo capire qual è la reale distanza fra movimento popolare e movimento populista, cosa succederà quando alcuni attivisti entreranno nella macchina parlamentare della politica, quella sorta di tritacarne che sembra annientare ogni aspirazione al cambiamento. Quindi basta battute e pregiudizi, anche se nessuno dei membri di Intervistato.com ne ha mai avuto, ma mai come ora siamo qui, in ascolto, come lo siamo stati per le risposte dei tre protagonisti delle primarie del centrosinistra Bersani, Vendola e le non risposte di Renzi.

Simone Corami | @psymonic


60 questions for Beppe Grillo

The M5S has had its primaries, the parliamentaries, to select those who will be the candidates for the next political elections in 2013, but the specific day is still a riddle.
1400 people, activists, for 95.000 votes collected online, far from the more than 3 milion of the CSX, but however worthy of attention and not only because of polls, but because M5S might be a carrier of topics from "below". So this time we've collected the questions for Beppe Grillo, spokesperson of the movement, and the activists who want to answer. The questions are about the internal democracy of the movement, which has been several times treated by mainstream media as well, but also the ways activists will face the topics related to the country agenda: from guaranteed income to economical politics, from ILVA to waste disposal.

Someone asks Grillo and the movement to be more specific and tell what the actions will be to make Italy a contemporary country under every aspect. There's also the web and the electronic democracy, which are dear to Grillo, from the first steps he moved in the field of politics, from the first meetups. So practically the questions are aimed to better understand how a 5 star country would be designed and function.

We thought it was right to give attention to the M5S because it represents a great deal of novelty and rupture with the past of the Italian political scenario, grown in time, but not so young since it's almost 10 years old, and that it does have some elements of similarity with the first Lega, with all the distinctions of the case, of course.

We'd like to understand what the distance is between a popular movement and a populist movement, what will happen when the activists will enter the parliamentary machine, that sort cold bureaucratic machine that seems to kill any willingness to change. So enough jokes and prejudices, we here at Intervistato.com we've never had any, but never as before we are here, waiting.

Simone Corami | @psymonic

lunedì 3 dicembre 2012

Il neo-tribalismo digitale e la distanza della politica



La politica discute di nuove forme di organizzazione, di come ripensare il proprio modello e di conseguenza le forme della leadership e le sue dinamiche di legittimazione. In questo dibattito il web, la Rete entra per lo più, quando va bene, come nuovo media, come nuova forma di propaganda digitale. 

Con il web si parla agli elettori, si fa campagna elettorale digitale. “Guardate Obama”, si sente ripetere nei convegni, ha vinto sfruttando bene Internet. Quello che però sta sfuggendo al dibattito, a mio avviso, non è tanto l’analisi del ruolo della Rete come media, come potente “cinghia di trasmissione” dei messaggi politici e come possibile combustibile del consenso quanto del suo ruolo paradigmatico e socio-culturale.

Ciò che, infatti, prima era un paradigma sociale confinato fra le maglie di Internet oggi sta esondando nel contesto sociale reale, influenzandone anzi, mutandone profondamente le dinamiche di funzionamento. Questa esportazione di un modello sociale da un ambiente digitale verso quello offline sta mutando non solo le forme organizzative collettive ma sta modificando anche la scala di valori di riferimento che attiva queste forme. Dall’altra parte l’impatto investe in pieno i modelli della leadership, fino ai meccanismi di legittimità e legittimazione. Il tutto in un contesto in cui il consenso si sta via via riducendo a fidelizzazione, ovvero a un processo di  "scelta temporanea” e labile, basata su pochi, a volte elementari elementi attivanti che è facile sostituire con altri.

Jon Postel, considerato il vero padre fondatore di Internet, nel 1981, postulò la legge che porta il suo nome e che descrive il “funzionamento sociale” della Rete: “Sii prudente in quello che fai, sii liberale in quello che accetti dagli altri” (“be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others”). Interpretata in chiave sociologica, questa legge stabilisce che in Rete è necessario essere “prudenti” e quindi rigorosi, rispettosi, esatti e precisi per ciò che in Rete si propone agli altri. Mentre bisogna essere “liberali” ovvero favorire e rispettare la libertà di pensiero e d'iniziativa altrui nell’atto di ricevere. In sostanza Postel postulò che la Rete è un ecosistema sociale il cui motore è la comunicazione basata sullo scambio, sull’apporto di valore da parte di ognuno, sull’interazione, sull’ascolto, sul rispetto dell’altro. Chi entra e comunica in Rete si assume una responsabilità per ciò che dice o fa ma anche una responsabilità verso l’altro, ovvero l’impegno a interagire, ad ascoltare, a condividere.

Sino a pochi anni fa questo modello sociale era ristretto all’interno di una ristretta elite di alchimisti digitali che parlavano un linguaggio oscuro ai più e che avevano costruito un mondo digitale di tipo reticolare, basato, appunto, sulla condivisione piena e trasparente, sulla collaborazione, sull’eguaglianza di tutti con tutti e su una dinamica di costruzione della leadership basata sul riconoscimento del valore di uno da parte del resto dei componenti la comunità. Una sorta di tribalismo digitale esclusivo e isolato dal “mondo reale”, dal quale non mutuava alcun modello di comportamento o valore e che, a sua volta non ne esportava. La stessa base concettuale dell’algoritmo di Google si basa sui “voti” che una singola pagina web riceve dalla Rete stessa, considerando come voti i link che verso quella pagina puntano e che quindi ne considerano interessante e attendibile il contenuto.

L’avvento del web ha sciolto il nodo della complessità tecnica e ha cooptato in rete chiunque e ha
trasformato Internet in un prolungamento digitale del contesto sociale. Quelli che prima erano  sacerdoti di un culto oscuro sono diventati operai che, in sala macchine, lavorano per rendere semplice la complessità tecnica delle infrastrutture di rete, di protocolli e algoritmi di compressione. Il Web, oggi, è user-friendly, non offre barriere concettuali di alcun tipo. Quello che però non è cambiato è il modello sociale che lo regola. In Rete tutto è condivisibile, tutti possono anzi devono dir la propria, tutti sono esattamente allo stesso livello, con i medesimi diritti e doveri. Una forma spinta di democratizzazione del modello sociale, si è spinto a dire qualche analista, portando il web come primo esempio della fattibilità concreta della democrazia diretta o della democrazia continua. Dall’altra parte, però, questa forma di democrazia digitale non ha eliminato ma anzi ha rafforzato una sorta di modello tribale che, questa volta, riguarda tutti gli abitanti della Rete.

Sul web si formano community, vere e proprie comunità che si saldano attorno a fattori di coesione costituiti da interessi condivisi, necessità, esigenze. Al loro interno si evidenziano leadership incarnate da soggetti definiti influencers, ovvero singoli che riescono a costruirsi una reputazione online, per quello che dicono, per come lo dicono, per il loro bagaglio di informazioni, e, soprattutto per la capacità di soddisfare le esigenze immediate della community stessa. I processi di creazione di queste community possono e sono spesso indotti dall’esterno, attraverso la proposizione di un bisogno, un’esigenza appunto indotta, come nel caso di community nate su input di brand commerciali, attorno a marchi o ai cosiddetti “lovebrand”. Più in generale le piattaforme entro cui queste community “vivono”, (i grandi social network, ad esempio) sono controllate da oligopolisti digitali che impongono le loro regole di funzionamento e, di fatto, controllano le community stesse o ne influenzano pesantemente il funzionamento, imponendo, ad esempio limiti censori sui temi affrontati e sulle modalità con cui possono essere affrontati.

Sin qui il mondo digitale. La politica sinora si è posta solo l’esigenza d’imparare a interagire con questo modello e ripensare i propri paradigmi comunicativi per poter “essere in rete” in maniera efficiente. Quello che il dibattito sui nuovi modelli organizzativi non sta tenendo in considerazione, come dicevo prima, e che rischia di vanificare qualsiasi ipotesi è che il modello sociale del web è ormai esondato nel contesto sociale reale.

La società è attraversata da fenomeni di tribalismo momentaneo, fenomeni di mobilitazione e aggregazione di movimenti e gruppi che si coagulano su piccoli interessi, privi di prospettiva storica e di visione futura. Non esistono programmi, visioni della forma sociale, idee, strategie. Non esistono contesti sociali, grandi valori condivisi tantomeno ideologie o appartenenze culturali. Esiste un unico, immediato interesse da soddisfare: l’acqua, il caro vita, la distribuzione egualitaria della ricchezza, la lotta all’economia finanziaria, il rifiuto di pagare un tributo, la protesta contro un’opera pubblica, sino al piccolo interesse urbano.

Battaglie completamente decontestualizzate, astratte dalla stessa società che le produce, completamente introflesse nella comunità di quanti condividono quell’interesse. Interesse minimalista, condiviso solo perché è immediatamente percepito come presente e saliente dai singoli e perché ne tocca la sfera più personale e immediata. La mobilitazione così perde prospettiva e progettualità, perde visione, perde la capacità di saldare la passione e la lotta politica sull’impegno a costruire. Il coinvolgimento si esaurisce nella soddisfazione minimalista del singolo interesse isolato.

Una dinamica esattamente identica alle community digitali, anch’esse coagulate intorno a un singolo interesse, decontestualizzato e senza visione prospettica. Interesse che si esaurisce nella sua
soddisfazione immediata e disintermediata e che quindi non ammette sovrastrutture organizzative, forme di regolamentazione della partecipazione. Le community si autoconvocano, decidono coralmente la forma di lotta più consona, la mettono in atto, valutano collettivamente i risultati e pianificano la strategia, sino alla soddisfazione dell’esigenza o al suo venir meno, il che provoca il liquefarsi della community. La similitudine fra dinamica on e offline è evidente e ormai invalsa come paradigma unico di attivazione sociale.

Anche la formazione delle leadership è del tutto simile. All’interno di movimenti spontanei offline e
community online si identificano influencers che prendono la guida del movimento sulla base di una
legittimazione collettiva, che va costantemente confermata –come è nel web – e che non risponde ad alcuna regola o istituzionalizzazione del ruolo, tantomeno a teorizzazioni della sua legittimità, a dinamiche di alternanza garantite da regole “costituzionali”. Il leader è tale perché lo decide la tribù, tribù che poi, proprio per la percezione di parità orizzontale e di pari ruolo, tende a mantenere una struttura reticolare e a gemmare altre community o semplicemente a sciogliersi, per tornare a coagularsi nuovamente su temi e interessi completamente diversi, riproponendo altre leadership.

Di fronte a questo mutamento ormai consolidato e in via di ulteriore evoluzione, la politica ha reagito balbettando. Dal tentativo di “mettere il cappello” sul singolo movimento ad agevolarne la lotta per scopi elettorali i tentativi si sono sempre infranti sull’impossibilità di forzare le nuove categorie della mobilitazione e dell’impegno nelle vecchie stanze dell’organizzazione di partito. Semplicemente i movimenti non sentono condivisi i loro interessi e non accettano la presenza al loro interno dei partiti e dei loro esponenti. Sono percepiti come “altro”, come non parte della community, della tribù e, soprattutto non ne riconoscono la leadership politica mentre, dall’altra parte, la politica non può che riproporre le proprie categorie organizzative, gerarchiche e funzionali, che impediscono di riconoscere le leadership autogenerate dalle forme tribali perché aliene e non legittimate da meccanismi elettorali codificati, in grado anche, fra l’altro, di sintetizzare i pesi interni della struttura-partito.

Qualcuno potrebbe percepire echi lontani di incompatibilità fra movimenti extraparlamentari e grandi partiti ideologici. Ma in quella fase storica lo scontro era di tipo ideologico, sulle forme di lotta. La “forma” politica, il volano della mobilitazione, la visione prospettica della lotta politica erano profondamente condivise. Qui sono due paradigmi sociali incompatibili e strutturalmente diversi che si confrontano e si scontrano. E’ la motivazione profonda dell’attivazione e dell’impegno a divergere, è la percezione della politica come “vecchia”, aliena e incapace di condividere e far proprie le battaglie delle tribù a provocare l’esclusione della politica stessa dalle comunità autoconvocate.

La stessa cosa che accade online, quando per entrare a far parte della community devi dimostrare di condividerne interessi e dinamiche interne oltre a essere in grado di “portare valore”, contributo fattivo, proprio come postulava Postel. In ultimo essere pronto a riconoscere le leadership. In buona sostanza la community accetta solo ciò e chi percepisce come omogeneo e utile alla causa e, come un organismo vivo, espelle o marginalizza tutto ciò che percepisce come inutile o peggio, dannoso.

Ma se la politica non è riuscita ancora a interpretare ed entrare in comunicazione con questo nuovo paradigma sociale, le aziende questa dinamica l’hanno, invece, ben compresa e stanno impegnando uomini e budget per intercettare, creare, gestire queste community, creando un cross molto forte fra digitale e reale. La tendenza, infatti, è quella di indurre la nascita, nutrire e foraggiare fenomeni tribali comunitari sulla Rete, per poi trasferirne forma e nesso di connessione nel mondo offline, attraverso il coinvolgimento reale e diretto delle persone. Sono le aziende, quindi, oggi, i soggetti in grado d’interagire e interpretare questo modello, ad illuminare e percorrere il ponte fra off e online. Se da un lato le aziende stanno interpretando un paradigma che si è già consolidato, dall’altro stanno decisamente contribuendo a rafforzare una cultura del tribalismo minimalista, soprattutto nelle giovani generazioni, che lo assumono così come unico il modello mobilitativo e di aggregazione sociale attiva.

A questo punto appare evidente come il ripensare i modelli organizzativi della politica non possa prescindere dal considerare questa trasmigrazione di modelli e paradigmi sociali dal digitale al reale. Non possa non considerare nel dibattito questo fenomeno di neo-tribalismo a geometria variabile e questo alleggerimento culturale e concettuale dei fattori di mobilitazione e di aggregazione. Non sono più i grandi temi, i modelli sociali condivisi prospetticamente, tantomeno le ideologie a essere fattori attivanti e nessi di coesione sociale. Si sta assistendo a una progressiva scarnificazione dell’ideale politico sino alla sua riduzione a mero interesse immediato, disintermediato e a-prospettico.

Un nuovo modello organizzativo della politica non potrà che cercare di essere in grado di creare un fattore di connessione per coagulare una community intorno a interessi questa volta non più minimalisti ma inseriti in un contesto storico, in un sistema prospettico di idee.

La sfida è innanzitutto culturale e su due fronti. Interno verso quella che è la classe politica, che dovrà comprendere profondamente il mutamento che sta vivendo, ed esterno, per contrastare l’immiserimento della prospettiva sociale e aggregativa e sostituirla con scale di valori che abbiano un valore prospettico e socialmente e culturalmente costruttivo. Solo così questi nuovi modelli aggregativi potranno essere mutuati e dar vita a una nuova forma organizzativa della politica.

Daniele Chieffi | @danielechieffi



Digital neo-tribalism and the distance of politics

Politics discusses new forms of organization, of how to rethink the model and consequently the forms of leadership, and its dynamics of legitimation. In this debate the web enters as the new media, as a new form of digital propaganda. With the web you can speak to voters, you can do a digital elections campaign. "Look at Obama", we can hear during conferences, he won using the Internet the right way.

What the debate lacks, in my opinion, isn't so much the analysis of the role of the Web as a media, as a powerful transmission belt of political messages and possible fuel of consensus, as its paradigmatic and socio-cultural role. What before was a social paradigm confined in the webs of the Internet, now is flooding the real social context, influencing and changing its working dynamics. This exportation of a social model from a digital environment towards an offline one is not only changing collective organizing forms, but also modifying the reference value chain that activates these forms. On the other side the impact influences the leadership models, until the legitimacy and legitimation mechanisms. All in a context in which consensus is slowly transforming into fidelization, a process of temporary, unstable choice, based on a few elementary, activating elements that can be easily substituted with others.

Jon Postel, considered the true founding father of the Internet, in 1981 postulated a law that carries his name and that describes the "social functioning" of the Web: "Be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others”. Interpreted in a sociological key, this law establishes that on the Web you need to be conservative, so rigorous, respectful, exact and precise for what the Web proposes to others. But you also need to be liberal, so favor and respect the freedom of though and initiative in the act of receiving. In substance Postel said that the Web is a social ecosystem in which the engine is listening and respecting others. Who enters and communicates on the web takes responsability for what he says or does, but also a responsibility towards others, so the promise to interact, listen, share.

Until a few years ago this social model was restricted inside a small elite of digital alchemists who talked a language obscure to most, and who had built a reticular digital world based on full and transparent sharing, on collaboration, on the equality of everyone with everyone and a dynamic of building of the leadership based on recognizing the value of one by the rest of the components of the community. A sort of exclusive, digital tribalism, isolated from the "real world", from which it didn't borrow any kind of behavior or value model, and that didn't export any either. The same conceptual basis of Google's algorithm is based on "votes" that a single page receives from the Web itself, considering as votes the links that point towards that page and that consequently consider its content interesting and reliable.

The web has resolved the knot of technical complexity and brought on the web anyone, transforming the Internet in a digital expansion of the social context. Those who were the priests of an obscure cult have become workers who, in the engine room, work to make technical complexity of Web infrastructures, protocols and compression algorithms easier. The web today is user friendly, it doesn't have any kind of conceptual barriers. What hasn't changed is the social model that regulates it. On the Web anything is sharable, anyone can, and must express their opinions, everyone is exactly at the same level, with the same rights and duties. An extreme form of democratization of the social model, some analyst said, taking the web as the first example of pratical possibility of direct democracy or continuous democracy. On the other side, however, this form of digital democracy hasn't eliminated, but has reinforced a sort of tribal model that, this time, regards all the users of the Web.

Sul web si formano community, vere e proprie comunità che si saldano attorno a fattori di coesione costituiti da interessi condivisi, necessità, esigenze. Al loro interno si evidenziano leadership incarnate da soggetti definiti
influencers, ovvero singoli che riescono a costruirsi una reputazione online, per quello che dicono, per come lo dicono, per il loro bagaglio di informazioni, e, soprattutto per la capacità di soddisfare le esigenze immediate della community stessa. I processi di creazione di queste community possono e sono spesso indotti dall’esterno, attraverso la proposizione di un bisogno, un’esigenza appunto indotta, come nel caso di community nate su input di brand commerciali, attorno a marchi o ai cosiddetti “lovebrand”. Più in generale le piattaforme entro cui queste community “vivono”, (i grandi social network, ad esempio) sono controllate da oligopolisti digitali che impongono le loro regole di funzionamento e, di fatto, controllano le community stesse o ne influenzano pesantemente il funzionamento, imponendo, ad esempio limiti censori sui temi affrontati e sulle modalità con cui possono essere affrontati.

Sin qui il mondo digitale. La politica sinora si è posta solo l’esigenza d’imparare a interagire con questo modello e ripensare i propri paradigmi comunicativi per poter “essere in rete” in maniera efficiente. Quello che il dibattito sui nuovi modelli organizzativi non sta tenendo in considerazione, come dicevo prima, e che rischia di vanificare qualsiasi ipotesi è che il modello sociale del web è ormai esondato nel contesto sociale reale.

La società è attraversata da fenomeni di tribalismo momentaneo, fenomeni di mobilitazione e aggregazione di movimenti e gruppi che si coagulano su piccoli interessi, privi di prospettiva storica e di visione futura. Non esistono programmi, visioni della forma sociale, idee, strategie. Non esistono contesti sociali, grandi valori condivisi tantomeno ideologie o appartenenze culturali. Esiste un unico, immediato interesse da soddisfare: l’acqua, il caro vita, la distribuzione egualitaria della ricchezza, la lotta all’economia finanziaria, il rifiuto di pagare un tributo, la protesta contro un’opera pubblica, sino al piccolo interesse urbano. Battaglie completamente decontestualizzate, astratte dalla stessa società che le produce, completamente introflesse nella comunità di quanti condividono quell’interesse. Interesse minimalista, condiviso solo perché è immediatamente percepito come presente e saliente dai singoli e perché ne tocca la sfera più personale e immediata. La mobilitazione così perde prospettiva e progettualità, perde visione, perde la capacità di saldare la passione e la lotta politica sull’impegno a costruire. Il coinvolgimento si esaurisce nella soddisfazione minimalista del singolo interesse isolato.

Una dinamica esattamente identica alle community digitali, anch’esse coagulate intorno a un singolo
interesse, decontestualizzato e senza visione prospettica. Interesse che si esaurisce nella sua
soddisfazione immediata e disintermediata e che quindi non ammette sovrastrutture organizzative, forme di regolamentazione della partecipazione. Le community si autoconvocano, decidono coralmente la forma di lotta più consona, la mettono in atto, valutano collettivamente i risultati e pianificano la strategia, sino alla soddisfazione dell’esigenza o al suo venir meno, il che provoca il liquefarsi della community. La similitudine fra dinamica on e offline è evidente e ormai invalsa come paradigma unico di attivazione sociale.

Anche la formazione delle leadership è del tutto simile. All’interno di movimenti spontanei offline e
community online si identificano influencers che prendono la guida del movimento sulla base di una
legittimazione collettiva, che va costantemente confermata –come è nel web – e che non risponde ad alcuna regola o istituzionalizzazione del ruolo, tantomeno a teorizzazioni della sua legittimità, a dinamiche di alternanza garantite da regole “costituzionali”. Il leader è tale perché lo decide la tribù, tribù che poi, proprio per la percezione di parità orizzontale e di pari ruolo, tende a mantenere una struttura reticolare e a gemmare altre community o semplicemente a sciogliersi, per tornare a coagularsi nuovamente su temi e interessi completamente diversi, riproponendo altre leadership.

Di fronte a questo mutamento ormai consolidato e in via di ulteriore evoluzione, la politica ha reagito
balbettando. Dal tentativo di “mettere il cappello” sul singolo movimento ad agevolarne la lotta per scopi elettorali i tentativi si sono sempre infranti sull’impossibilità di forzare le nuove categorie della mobilitazione e dell’impegno nelle vecchie stanze dell’organizzazione di partito. Semplicemente i movimenti non sentono condivisi i loro interessi e non accettano la presenza al loro interno dei partiti e dei loro esponenti. Sono percepiti come “altro”, come non parte della community, della tribù e, soprattutto non ne riconoscono la leadership politica mentre, dall’altra parte, la politica non può che riproporre le proprie categorie organizzative, gerarchiche e funzionali, che impediscono di riconoscere le leadership autogenerate dalle forme tribali perché aliene e non legittimate da meccanismi elettorali codificati, in grado anche, fra l’altro, di sintetizzare i pesi interni della struttura-partito.

Qualcuno potrebbe percepire echi lontani di incompatibilità fra movimenti extraparlamentari e grandi partiti ideologici. Ma in quella fase storica lo scontro era di tipo ideologico, sulle forme di lotta. La “forma” politica, il volano della mobilitazione, la visione prospettica della lotta politica erano profondamente condivise. Qui sono due paradigmi sociali incompatibili e strutturalmente diversi che si confrontano e si scontrano. E’ la motivazione profonda dell’attivazione e dell’impegno a divergere, è la percezione della politica come “vecchia”, aliena e incapace di condividere e far proprie le battaglie delle tribù a provocare l’esclusione della politica stessa dalle comunità autoconvocate.

La stessa cosa che accade online, quando per entrare a far parte della community devi dimostrare di condividerne interessi e dinamiche interne oltre a essere in grado di “portare valore”, contributo fattivo, proprio come postulava Postel. In ultimo essere pronto a riconoscere le leadership. In buona sostanza la community accetta solo ciò e chi percepisce come omogeneo e utile alla causa e, come un organismo vivo, espelle o marginalizza tutto ciò che percepisce come inutile o peggio, dannoso.

Ma se la politica non è riuscita ancora a interpretare ed entrare in comunicazione con questo nuovo
paradigma sociale, le aziende questa dinamica l’hanno, invece, ben compresa e stanno impegnando uomini e budget per intercettare, creare, gestire queste community, creando un cross molto forte fra digitale e reale. La tendenza, infatti, è quella di indurre la nascita, nutrire e foraggiare fenomeni tribali comunitari sulla Rete, per poi trasferirne forma e nesso di connessione nel mondo offline, attraverso il coinvolgimento reale e diretto delle persone. Sono le aziende, quindi, oggi, i soggetti in grado d’interagire e interpretare questo modello, ad illuminare e percorrere il ponte fra off e online. Se da un lato le aziende stanno interpretando un paradigma che si è già consolidato, dall’altro stanno decisamente contribuendo a rafforzare una cultura del tribalismo minimalista, soprattutto nelle giovani generazioni, che lo assumono così come unico il modello mobilitativo e di aggregazione sociale attiva.

A questo punto appare evidente come il ripensare i modelli organizzativi della politica non possa prescindere dal considerare questa trasmigrazione di modelli e paradigmi sociali dal digitale al reale. Non possa non considerare nel dibattito questo fenomeno di neo-tribalismo a geometria variabile e questo alleggerimento culturale e concettuale dei fattori di mobilitazione e di aggregazione. Non sono più i grandi temi, i modelli sociali condivisi prospetticamente, tantomeno le ideologie a essere fattori attivanti e nessi di coesione sociale. Si sta assistendo a una progressiva scarnificazione dell’ideale politico sino alla sua riduzione a mero interesse immediato, disintermediato e a-prospettico.

Un nuovo modello organizzativo della politica non potrà che cercare di essere in grado di creare un fattore di connessione per coagulare una community intorno a interessi questa volta non più minimalisti ma inseriti in un contesto storico, in un sistema prospettico di idee.

La sfida è innanzitutto culturale e su due fronti. Interno verso quella che è la classe politica, che dovrà comprendere profondamente il mutamento che sta vivendo, ed esterno, per contrastare l’immiserimento della prospettiva sociale e aggregativa e sostituirla con scale di valori che abbiano un valore prospettico e socialmente e culturalmente costruttivo. Solo così questi nuovi modelli aggregativi potranno essere mutuati e dar vita a una nuova forma organizzativa della politica.

Daniele Chieffi | @danielechieffi

venerdì 23 novembre 2012

La (non) risposta di @matteorenzi alle 50 domande dei lettori



Ogni tanto la politica si rinnova. Cambia facce, prospettive, ideali, e si ripropone con un viso pulito che promette cambiamenti radicali e apertura al nuovo.

[Qui le 50 domande dei lettori]

E' forse anche per questo motivo che, verso l'inizio del mese Novembre, abbiamo coinvolto i nostri lettori in un progetto che rispecchiava in tutto e per tutto la tendenza riscontrata in questi ultimi mesi nella politica italiana, ovvero quella di aprirsi al dialogo con la Rete e con i cittadini che attraverso i social media cercano di informarsi riguardo a temi che li riguardano da vicino.

Abbiamo cominciato da Matteo Renzi, che dell'importanza della Rete ha fatto un pilastro della propria campagna elettorale in vista delle primarie del centro-sinistra, e che sui social network ha costruito gran parte della propria immagine di politico giovane e "rottamatore".

Così, il 7 Novembre, abbiamo pubblicato un post su Facebook, invitando tutti a raccontare la domanda che avrebbero voluto fare a Matteo Renzi, nel caso avessimo avuto la possibilità di intervistarlo. Allo stesso tempo, abbiamo lanciato su Twitter gli hashtag #intervistatu #Renzi, attraverso i quali molti altri utenti si sono uniti all'appello ed hanno sottoposto i propri quesiti. La partecipazione è stata notevole: in pochi giorni sono arrivate circa 50 domande sui temi più svariati, dal conflitto d'interessi al fine vita, dal mondo della finanza ai provvedimenti contro le infiltrazioni mafiose e il crimine organizzato, tema notoriamente ignorato nei programmi dei candidati, Renzi incluso.

Il 12 Novembre è uscito il post con Storify annesso che raccoglieva tutto il materiale arrivato dagli utenti, dai tweet ai commenti su Facebook. Il post ha riscontrato un grande entusiasmo dei lettori, che a quel punto si sono messi in attesa delle risposte di Matteo Renzi. Nel giro di poche ore, abbiamo ricevuto un tweet dall'account Adesso Partecipo, con la richiesta di mandare la trascrizione delle domande raccolte nello Storify, richiesta poi sospesa in quanto lo staff ha affermato "stiamo già facendo".

Il 15 abbiamo comunque inviato le 50 domande trascritte allo staff via email, ed aspettato un'ulteriore risposta, solo per ricevere il seguente tweet:

Un impegno preso è considerato sacro, quindi abbiamo aspettato le risposte che, a quel punto, pensavamo sarebbero arrivate in poche ore. Aspettativa delusa nelle giornate successive, durante le quali abbiamo continuato tuttavia a sollecitare una risposta.

Il 20 Novembre arriva però un tweet di Matteo Renzi, che ci promette che risponderà alle domande "entro domani ciao".

Magra consolazione presto disattesa dal silenzio durante il giorno successivo, e il giorno dopo ancora. Dopo ulteriori solleciti, arriva finalmente un'altra promessa, corredata da quelle che sembrano delle scuse per il ritardo:

Soltanto un giorno, e finalmente i nostri lettori avrebbero avuto, dopo ben 10 giorni di attesa, una risposta alle proprie domande. Ma ancora una volta sono rimasti delusi: ulteriore sollecito, ed oggi arriva questa risposta:

Non neghiamo qualche attimo di perplessità nel leggere questa (non) risposta. Se realmente fosse stata questa, allora certamente non ci sarebbero voluti 11 giorni, e sicuramente non ci sarebbe stato bisogno di promettere e rimandare tante volte.

Se si fosse trattato solamente di andare a vedere il testo del programma per avere una risposta, l'avrebbero fatto tutti coloro che hanno inviato la propria domanda: ma se si guarda attentamente, molti temi mancano, altri sono affrontati in maniera estremamente marginale, e manca del tutto una risposta chiara e concreta.

Del resto, è vero che 50 domande sono tante, ma se un politico vuole fare il premier di un paese, 50 domande non saranno certamente un problema, specialmente per qualcuno che si presenta come un attento ascoltatore e frequentatore della Rete. Abbiamo scelto di non censurare le domande dei lettori, non selezionarle e non rivederle in quanto le esigenze e i dubbi che affiorano da quelle raccolte possono essere quelle di chiunque, e le risposte influenzano la vita di tutti, non solo di coloro che quei dubbi li hanno esternati.

Non siamo da soli, peraltro: si attende risposta anche alle 6 domande di Greenpeace, per le quali l'alibi della lunghezza non c'è. Eppure, anche lì, silenzio. Ma un impegno preso è sacro, come dicevamo. Peccato.

Speriamo che Matteo Renzi si ricreda e rispetti l'impegno preso. Altrimenti sarebbe già la prima promessa ad essere disattesa.

Maria Petrescu | @sednonsatiata


Matteo Renzi's (non) answer to our readers' 50 questions

Every once in a while, politics renews itself. It changes faces, perspectives, ideals, and reproposes itself with a clean face that promises radical changes and opening to innovation.

Maybe that is the reason why, at the beginning of November, we engaged our readers in a project that reflected precisely the tendency encountered during these last few months in Italian politics, which is the availability to dialogue with the web and with the citizens that through social media try to get information on the topics that regard them more closely.

We started with Matteo Renzi, who has made a pillar of his campaign of the importance of the web, and who built a great deal of his image of young politicians on social networks.

So, on November the 7th, we published a post on Facebook, inviting everyone to tell us what question they'd like to ask Matteo Renzi in case we had the opportunity to interview him. At the same time, we launched on Twitter the hashtags #intervistatu #Renzi, which readers used in order to send their questions. The participation rate has been incredible: in just a few days about 50 questions on the most diverse topics have arrived, from conflict of interests to the topics of the end of life, from the financial world to the actions against mafia infiltrations and organized crime, a topic that is notoriously ignored in the candidates' programs, Renzi's included.

On November 12th we published a post with a Storify that put together all the material arrived from the users, from tweets to Facebook comments. The post encountered an incredible enthusiasm from readers, who at that point set themselves to wait for Matteo Renzi's answers. In a matter of hours, we received a tweet from the account Adesso Partecipo ("now I participate" n.d.r.), with the request to send the transcription of the questions of the Storify, a request that was then suspended because the staff said they we already working on it.

On the 15th of November we sent the 50 questions via email anyway, and waited further answers, only to receive this tweet: "As you can see, he's very busy now... but we've made a committment."

Awesome. Committments are sacred, so we set ourselves to wait those answers that we thought would arrive in a matter of hours now. A hope that has been deceived in the following days, during which we still continued to sollicitate for an answer.

On November the 20th we received a tweet from Matteo Renzi himself, promising that he would answer our questions "before tomorrow bye".

A tepid consolation that was soon deceived by the silence during the next day, and the next day after that. A few requests for answer later, here's another promise, along with what looks like excuses for the delay: "I'm late, it's true, but I promise to answer before the elections, not later than tomorrow".

Just one day and our readers could finally have, after 10 days of wait, an answer to their questions. But yet again they have been deceived: another request, and today we get this tweet: "I've seen the questions, all the answers are in the program and in the "Truths about Matteo" section of the website."

Well, we can't deny we were a bit puzzled by this non answer. If it really had been this one, then it couldn't have taken 11 days to write, and surely there wouldn't have been any need to promise and delay so many times.

If this was only about reading the text of the program in order to have an answer, everyone who sent a question would have just done it: but if you look closely, many topics are missing, others are only marginally discusssed, and a clear and concrete answer lacks entirely.

On the other hand, it is true that 50 questions are many, but if a politician wants to be the Prime Minister of a country, 50 questions are surely not a problem, especially for someone who presents himself as a careful listener of the Web. We chose not to  censor the question of readers, not select them and not change them since the needs and doubts that are expressed there can be those of anyone, and the answers have an impact on the lives of everyone, not only those who sent the questions.

We're not alone, by the way: someone is still waiting for the answers to Greenpeace's 6 questions, for which the length is surely not an alibi. And yet, silence there as well. But a committment is sacred, as we said earlier. Too bad.

Wr hope that Matteo Renzi changes his mind and respects his committment. Or else it would be the first promise he deceives.

Maria Petrescu | @sednonsatiata

venerdì 27 luglio 2012

Prossimamente: Giuseppe Granieri @gg



Fra qualche giorno avremo il piacere di intervistare Giuseppe Granieri, uno dei maggiori esperti italiani di comunicazione e culture digitali. 

Nato nel 1968, si è laureato in lingua e letteratura spagnola. La passione per il «nuovo» lo ha portato dalla narratologia (sua antica e forse non sopita fissazione) ad occuparsi a tempo pieno di innovazione.

Lui stesso sostiene che "l'innovazione è una cosa buffa: essendo un processo (e non un prodotto) mi consente di occuparmi spesso di cose nuove: dalla progettazione di musei al design di ambienti collaborativi in diversi ambiti, da quelli ministeriali a quelli accademici, da quelli aziendali a quelli culturali e turistici.
La verità è che mi diverto, prima di tutto a «sporcarmi le mani» sperimentando cose."

Ha scritto diversi libri e collabora con alcune testate, tra cui L'Espresso e La Stampa; inoltre insegna (a contratto) all'Università di Urbino.

Avremo modo di parlare di cultura digitale, comunicazione online, alcuni tra i più eclatanti paradossi nell'utilizzo dei social media che abbiamo visto negli ultimi tempi, nonché di strategie per aziende e politici.

Naturalmente vi invitiamo come sempre a inviare le vostre domande attraverso il form di Responsa qui sotto.

Maria Petrescu | @sednonsatiata






Coming up soon: Giuseppe Granieri

In just a few days we'll have the pleasure of interviewing Giuseppe Granieri, one of the biggest Italian experts of communication and digital cultures.

Born in 1968, he graduated in Spanish Literature. The passion for "new" has brought him from narratology (an old and maybe never forgotten passion) to deal with innovation full time.

He says that "innovation is a curious thing: being a process (and not a product), it allows me to always deal with new things: from projecting museums to designing collaborative environments in several fields, from ministeries to accademical ones, from business to cultural and touristical ones. The truth is that I have a lot of fun, first of all 'getting my hands dirty' experimenting stuff."

He has written a few books and collaborates with several publications, among which L'Espresso and La Stampa, and he also teaches at the University of Urbino.

We'll have the chance to talk about digital culture, online comunication, some of the most incredible examples of social media usage that we've seen in the last few months, and strategies for companies and especially politicians.

Of course, we await your questions via the form below!

Maria Petrescu | @sednonsatiata

mercoledì 20 giugno 2012

StartupID | Marc Rougier di Scoop.it @marcfuseki



La diciottesima intervista di StartupID è con Marc Rougier, fondatore di Scoop.it.



StartupID è la rubrica realizzata in collaborazione con Indigeni Digitali e dedicata al mondo delle startup.

Innanzitutto Marc ha spiegato le due ragioni per cui è nata la sua piattaforma di content curation: in primo luogo lui e il socio erano letteralmente innamorati dei social media, ma purtroppo non avevano tempo per produrre contenuti. Hanno così individuato un bisogno, che è quello di chi vuole esprimersi riguardo a un certo argomento ma non ha il tempo per scrivere e tenere un blog.

In secondo luogo perché avevano un’altra piattaforma, che utilizzavano per pubblicare contenuti organizzati in macro-argomenti. Col tempo gli utenti hanno però espresso la necessità di avere contenuti sempre più di nicchia, e dunque sono arrivati alla decisione di dare la possibilità a tutti di diventare curatori e pubblicare: in questo modo è la comunità stessa a curare gli argomenti[video]

Per quanto riguarda gli elementi costituienti di questo servizio, abbiamo chiesto a quali altre piattaforme si sono ispirati: secondo Marc quando si fanno attività sul web non si “inventa la ruota”, ma si trae appunto ispirazione. Si usano diversi servizi, e si selezionano quelle cose che funzionano meglio e hanno più senso per quel che si vuole fare. La curation è definita dalla selezione, dall’editing e dalla condivisione. [video]

Per cominciare a pubblicare con Scoop.it
ed avere la propria rivista, dunque, basta avere una passione e un certo grado di expertise su un determinato argomento. Se questi ci sono, la piattaforma renderà semplicemente più semplice pubblicare. Basta registrarsi con il proprio account Twitter o Facebook e quindi inserire alcune parole chiave nel sistema riguardanti l’argomento scelto. Scoop.it interroga tutti i motori di ricerca, le API dei vari servizi social e così via, per cercare contenuti e proporli al curatore, che poi deciderà che cosa pubblicare.

Selezionare, modificare, condividere: una volta che la rivista è pronta, la si può condividere e collegare alla propria presenza sociale online, spingendo i contenuti sui vari canali. [video]

Per quanto riguarda i numeri, sono stati raggiunti 3 milioni di utenti unici, senza aver investito in marketing, ma basandosi solamente sul passaparola. La crescita si assestava sui 30 – 35%, con un leggero calo durante il periodo di Natale.

La maggioranza degli utenti di Scoop.it infatti sono aziende e professionisti che usano la piattaforma per motivi di lavoro. Per esempio, il caso più frequente è quello di aziende convinte che il web sia fondamentale: hanno un account Twitter, una fanpage su Facebook, un blog o un sito, ma questi sono solamente elementi infrastrutturali. Per alimentarli di contenuti si utilizza Scoop.it, specialmente se l’azienda è piccola e non può permettersi di assumere un’agenzia di comunicazione. [video]

Gli obiettivi per il futuro sono senz’altro far sì che la value proposition sia capita, promuovere i pacchetti a pagamento e infine portare Scoop.it e la content curation su dispositivi mobile, in modo particolare sull’iPad.

Il piano free dà tutti i diritti descritti finora. Il piano pro, il più economico tra quelli a pagamento, offre anche analytics e la possibilità di delegare la curation a membri di un team. Il piano business, il più costoso, dà la possibilità alle piccole e medie imprese di avere un vero e proprio sito, con l’URL personalizzata, graphic chart, layout personalizzabile e topic completamente customizzabili. [video]

Vi invito a vedere l’intervista, decisamente più ricca di dettagli e spunti.

Buona visione!

Maria Petrescu | @sednonsatiata


StartupID | Marc Rougier of Scoop.it

Our eighteenth interview for StartupID is with Marc Rougier, founder of Scoop.it.

First of all Marc explained the two reasons his content curation platform was born: first, he and his associate were literally in love with social media, but unfortunately had no time to produce content. So they spotted a need, that of people who want to express themselves regarding a certain topic but have no time to write and keep a blog.

Secondly because they already had another platform, which they used to publish content organized in topics. In time users expressed the need to have content that was more and more specialized, so they came  to the conclusion that the best thing to do was to give the possibility to everyone to become curators and publish: this way it is the community itself that curates topics. [video]

As for the characteristics of this service, we asked which platforms they got inspiration from: in Marc's opinion when you do something on the web you don't "invent the wheel", you get inspired. You use different services, select the things you like and work best and make sense for what you want to do. Curation is defined by selection, editing and sharing. [video]

To start publishing with Scoop.it and set up your own magazine, the only thing you need to have is passion and a certain expertise regarding a particular topic. If you have that, the platform will simply make it easier for you to publish. You just need to log in with your Twitter or Facebook account and insert a few keywords about the chosen topic in the system. Scoop.it interrogates all the research engines, APIs of several social networks and so on, and then proposes the content to the curator, who decides what to publish.

Select, edit, share: once the magazine is ready, you can share it and connect it to your online social presence, pushing content on different channels. [video]

As for numbers, they have already reached 3 milion unique users, without even investing in marketing, but only relying on word of mouth. The growth, at the moment of the interview, was of 30-35%, with a slight reduction during the Christmas period.

The majority of Scoop.it users are in fact companies and professionals that use the platform for work reasons. For example, the most frequent case is that of companies convinced that the web is vital: they have a Twitter account, a Facebook fanpage, a blog or a website, but these are only infrastructure. They need content, so they rely on Scoop.it, especially if the company is small and can't afford to hire a communication agency. [video]

The goals for the future are without a doubt making sure that the value proposition is understood, promoting paid packages and finally bringing Scoop.it and content curation on mobile devices, particularly the iPad.

There are three levels as for plans: the free plan gives you all the stuff we talked about until now. The PRO plan, the cheapest among the paid ones, also offers analytics and the possibility to delegate curation to members of a team. The Business plan, the most expensive, gives the possibility to small and medium companies to have a website, with a personalized URL, graphic charts, customizable layout and fully customizable topics. [video]

I invite you to view the interview, much richer in details than my synthesis.

Enjoy!

Maria Petrescu | @sednonsatiata

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